domenica 6 maggio 2012

Orizzontale o verticale? (1^ parte)

L'intenzione di questo scritto è quella di iniziare una analisi a puntate su un tema piuttosto attuale a livello di critica calcistica, su cui da tempo avevo in mente di produrre qualcosa. Le riflessioni che seguono derivano da un breve colloquio avuto con l'amico Beppe Monighini a margine di un infuocato Consiglio comunale in cui si è parlato soprattutto di bilanci (il che tutto sommato dimostra una volta di più come il calcio faccia parte del nostro substrato culturale, e come tale sia sempre pronto ad affiorare, anche nei momenti più impensabili). Il tema, che ho sintetizzato col titolo "Orizzontale o verticale?" è semplicemente il (non innovativo) dibattito sulla maggiore efficacia del gioco "modello Barcellona", fatto di possesso palla, trame insistite e fitti passaggi in attesa di un varco dove imbucare l'assist decisivo, o del suo opposto, il modello che potremmo definire "italianista", fatto di attesa e veloci verticalizzazioni a capovolgere il gioco (in qualunque modo, che si parli di contropiede sistematico, oppure di ricerca del lancio lungo per la prima punta) che negli ultimi anni ha avuto nell'Inter di Mourinho la sua vetta più alta, e quest'anno nel Chelsea di Di Matteo la sua migliore applicazione stagionale.
In attesa di analizzare più attentamente, nella seconda puntata, la reale efficacia dei due stili con l'ausilio di dati statistici, comincerei col dire che nessuno dei due modelli è una novità assoluta, ma che a mio parere siamo di fronte a due elaborazioni moderne di due vecchissime scuole di gioco europee: lo stile britannico, del cosiddetto "kick and rush" e lo stile danubiano, reso famoso negli anni Trenta dall'Austria di Sindelar e dall'Ungheria di Sarosi.
Il "kick and rush" (calcia e corri), detto anche "up and under", perchè nelle sue espressioni più troglodite si basa sul rilanciare la palla molto in alto e attenderne la caduta, è la soluzione che i maestri inglesi avevano escogitato per dare ritmo al loro gioco anche su campi pesanti e fangosi: si lancia un pallone lungo, meglio se sugli esterni, per mettere in azione le ali, che sono fra i giocatori più veloci e tecnici del modello di calcio inglese. Alle ali, in questa sua versione originale, viene chiesta solo una cosa: arrivare il più vicino possibile al fondo (sfruttando la loro maggiore velocità, oppure superando in dribbling il terzino facendo leva sulla tecnica) e poi girare il pallone al centro dell'area, dove la presenza di un centravanti fisicamente prestante è di grande beneficio per tradurre la manovra in gol. La scuola danubiana, non tanto perchè più raffinata, ma soprattutto perchè condizionata dalla presenza di giocatori di passo più lento, aveva escogitato una soluzione diversa, proprio al fine di trasformare questo passo più compassato dei suoi giocatori migliori da debolezza in punto di forza: ridurre la velocità del gioco a beneficio della precisione, muovendo la palla con tanti passaggi e costringendo gli avversari a rincorrerla invano fino a scoprire varchi dove piazzare il tocco decisivo. Col tempo, i due sistemi si sono evoluti: quello inglese ha trovato nell'Europa del Sud (prima in Svizzera col "verrou" di Karl Rappan, poi in Italia con Gipo Viani) una evoluzione difensiva nel "Catenaccio", che si basa su una considerazione: se faccio uscire l'avversario dalla sua metà campo, ho l'opportunità di trovare più spazio dove manovrare. Uno spazio pericolosissimo per chi sta attaccando, perchè si apre alle spalle delle linee, offrendo all'attaccante l'opportunità di puntare a rete indisturbato o quasi, se il lancio viene effettuato con perfetta scelta di tempo.
Ci sono due cose che vale la pena notare: la prima è che questi sono due degli stili di gioco possibili (c'è quello sudamericano, per esempio, che nella sua forma più pura e originale è molto portato a far valere la tecnica individuale trasformando il concetto di squadra nella somma di tanti uno contro uno in cui il dribbling è la chiave di volta della manovra; c'è quello tedesco/olandese, dove all'opposto l'organizzazione di gioco, la prestanza fisica e un certo eclettismo nell'interpretazione dei ruoli favoriscono un calcio giocato ad alti ritmi atletici, e così via); la seconda è che parlare di stili va bene giusto in chiave storica, perchè oggi gli elementi delle diverse scuole si presentano variamente mescolati.
Sia la visione "orizzontale" del gioco, sia quella "verticale" sono potenzialmente efficacissime, ma ognuna di loro presenta, fra mille pregi, un difetto strutturale legato all'interpretazione più moderna del calcio. Oggi la discriminante che sembra ispirare tutti i maggiori allenatori non è tanto la scelta fra orizzontale e verticale quanto la necessità di recuperare palla il più "alto" possibile nella metà campo avversaria. Quanto più il 'turnover' avviene in profondità, tanto più è facile puntare a rete, ma questo fa sì che il pressing insistito e la concentrazione di tanti giocatori in pochi metri renda difficile la fluidità della manovra (altro dibattito: le partite di una volta erano più belle di oggi? Forse sì, perchè i giocatori avevano più tempo e più spazio per effettuare il gesto tecnico).
Ma torniamo ai difetti strutturali: il problema della verticalità sta nella difficoltà di mescolare la rapidità di esecuzione del rovesciamento di fronte alla accuratezza del passaggio. Un lancio sbagliato è un pallone buttato via. Per contro, il problema dell'orizzontalità sta nella necessità di far muovere la palla il più rapidamente possibile, perchè una circolazione troppo lenta rischia di essere soffocata dal pressing o di trovare spazi intasati. Non è dunque sbagliato dire che entrambi i sistemi, per dare il massimo, hanno bisogno (in frangenti e modalità diverse) delle stesse due doti: velocità e precisione. Incredibile come il calcio finisca sempre per ridursi a concetti tanto semplici...
(1-continua)

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